Leonardo

Fascicolo 13


La più recente definizione della matematica
di Giovanni Vailati
pp. 7-10


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   È stata data da B. Russell (International Monthly, IV, (I), p. 84) e consiste nel dire che la matematica è una scienza nella quale non si ha mai bisogno di sapere se quello che si dice è vero e neppure di sapere di che cosa si parla. Ha tutto l'aspetto di un paradosso e anzi d'un enigma: ed è quindi tanto più interessante far vedere come essa corrisponda nel modo esatto al concetto che si fanno della matematica quelli tra i suoi cultori contemporanei che si sono preoccupati di domandarsi in che cosa essa differisca dalle altre scienze.
   È un fatto che non manca di un certo lato umoristico questo, che mentre dai filosofi delle varie scuole si continua più che mai a discutere su quella che chiamano la natura delle cognizioni matematiche: se queste siano «a priori» o «a posteriori,» se siano «verità necessarie» o «contingenti» «analitiche» o «sintetiche» ecc., i matematici, dal loro canto, non solo si disinteressano affatto da questo genere di questioni, ma sono sempre più indotti a riguardare anche la questione stessa della verità o della falsità delle affermazioni che essi enunciano, come affatto estranea alla sfera delle proprie attribuzioni, come una questione dalla quale non dipende affatto l'interesse o l'importanza che essi attribuiscono alle proprie ricerche. Essi tendono sempre più a far consistere lo scopo di queste non nel determinare quali delle affermazioni che prendono a considerare siano vere o false, ma nel ricercare quali fra esse dovrebbero essere vere se altre lo fossero, o perchè altre lo siano: nel determinare, cioè, quali supposizioni occorrerebbe, o basterebbe, fare per poter giungere a tali o tali altre conclusioni, o a quali conclusioni si sarebbe condotti se si volessero ammettere tali e tali altre supposizioni.
   Che queste ultime siano poi vere o false, che esse siano più o meno conformi alla «realtà,» è una circostanza alla quale i matematici sono disposti ad attribuire sempre minor peso. Essi non negano naturalmente che una tale circostanza possa avere la sua parte nel far decidere quali siano le supposizioni delle cui conseguenze val la pena di occuparsi. Ma essi non la riguardano nè come la sola nè come la principale delle circostanze di cui conviene tener conto a tale riguardo. Sopra tutto essi sono lontani dal credere che la sua presenza sia indispensabile per rendere un insieme di supposizioni atte a servire da punto di partenza di una teoria scientifica.
   Per le esigenze stesse che sono imposte dalla sua applicazione alle scienze fisiche e meccaniche, la matematica si arricchisce ogni giorno di nuove ipotesi o premesse, che, per quanto suggerite dalla osservazione o dagli esperimenti, corrispondono a vere deformazioni, o falsificazioni, dei fatti reali, effettuate in vista appunto di rendere lo studio di questi accessibile ai potenti mezzi di cui dispone il calcolo e la rappresentazione geometrica. E tali deformazioni, o falsificazioni, ben lungi dall'essere riguardate come degli espedienti eccezionali ai quali sia necessario ricorrere a causa di qualche limitazione inerente all'esercizio delle nostre facoltà intellettuali, sono riconosciute sempre più come condizioni normali e indispensabili di qualsiasi specie di attività razionale.
   Quel metodo stesso che si chiama delle «approssimazioni successive,» e che consiste nel correggere gradatamente i risultati di investigazioni teoriche tenendo conto d'un numero sempre crescente di circostanze che complicano il fenomeno da studiare, presuppone come preliminare indispensabile un processo inverso, consistente invece nel semplificare artificiosamente i fatti che si vogliono sottoporre a studio, spogliandoli della più gran parte dei caratteri che essi effettivamente presentano e cercando di determinare come essi dovrebbero comportarsi se essi fossero quali li supponiamo, cioè se essi fossero diversi da quel che sono.
   Le ipotesi che in tal modo vengono a essere costruite, non soltanto non cessano di essere accettabili per il fatto di essere false, ma si presentano al contrario come tanto più atte a servire al loro scopo quanto meno esse sono vere, quanto più cioè sono numerosi i caratteri che esse riescono a trascurare nella rappresentazione, convenzionale e schematica, che ci danno dei fatti ai quali si riferiscono.
   Nè i casi di questo tipo sono i soli nei quali la preferenza per una data ipotesi matematica si presenti come determinata e giustificata da motivi non aventi alcun rapporto colla sua verità o colla sua maggiore o minore conformità ai fatti «reali.»
   Non meno istruttivo a questo riguardo è quello offerto dalle nuove ricerche cosiddette di geometria non euclidea. È noto infatti come lo sviluppo di queste ultime abbia condotto a riconoscere come alcuni almeno degli assiomi, che stanno a base della trattazione tradizionale della geometria, potevano anche essere sostituiti da altri, i quali affermassero precisamente il contrario, senza che per questo venisse meno la possibilità di costruire un edificio teorico altrettanto coerente ed armonico in tutte le sue parti quanto quello costruito sugli antichi fondamenti, e non meno di esso compatibile colle constatazioni sperimentali, dati gli stretti limiti entro ai quali queste sono inevitabilmente connate. Ed è diventata ormai banale la frase, ripetuta recentemente anche dal Poincaré, che il domandarsi se la geometria euclidea sia vera o non vera, in confronto alle altre geometrie che si potrebbero costruire e adottare in suo luogo, ha così poco senso come il domandarsi se sia più vero il sistema metrico decimale o l'uno o l'altro dei vecchi sistemi di misura: «Una geometria non può essere più vera di un'altra; essa può solamente essere più comoda.» (POINARÈ, Science et hypothese, p. 67),
   Meno facile si riuscirà giustificare e chiarire l'altra parte della definizione riportata dal Russell, quella cioè che qualifica la matematica come una scienza nella quale non si ha bisogno di sapere di che cosa si parla.
   Occorre qui prendere le mosse da un altro campo di considerazioni. È nota la frase colla quale il Max Müller ha tentato precisare ciò che costituisce il tratto caratteristico di un vero linguaggio, in opposizione alle forme meno perfette di manifestazioni istintive di stati d'animo per mezzo dei suoni, quali esse si riscontrano anche negli stadi inferiori di sviluppo della vita animale. «Il linguaggio, egli dice, comincia dove le interiezioni finiscono
   Se noi ci domandiamo alla nostra volta in che cosa differiscano effettivamente le interiezioni, da quelle che i grammatici chiamano le altre «parti del discorso», ci accorgiamo subito che esse sono le sole parole che, anche enunciate isolatamente, bastano per sè stese a esprimere qualche stato d'animo od opinione di chi le pronuncia, mentre le altre specie di vocaboli, per esempio i nomi o i verbi, non possono servire a tale scopo se non quando vengano raggruppate, le une insieme alle altre in modo da dar luogo a un seguito di parole (frase, proposizione) avente qualche significato.
   Quando emettiamo per esempio il suono «brr» o il suono «sst» noi non abbiamo bisogno di aggiungere altro pe far capire che sentiamo del freddo o che desideriamo non si faccia rumore. Se invece pronunciamo, per esempio, il nome di un'oggetto, senza accompnarlo con qualche altra parola (o gesto) che indichi che cosa vogliamo dire di esso, e almeno spieghi se vogliamo asserire che lo vediamo o che lo desideriamo o che ne aspettiamo la comparsa ecc., esprimiamo affatto nessuna nostra opinione, o disposizione d'animo, ma solo tutt'al più, che stiamo pensando a quell'oggetto senza affatto dire nulla su ciò che ne pensiamo.(2)
   Ne segue che le interiezioni possono qualificarsi come quelle tra le parole del nostro linguaggio, che hanno più senso di tutte le altre, e, in certo modo, come le sole che ne hanno, mentre le altre parole sono soltanto suscettibili di acquistarne, nel caso che siano assunte a far parte di una frase che ne abbia.
   La frase sopracitata del Max Müller equivale dunque a dire che il vero linguaggio comincia colla prima introduzione di parole che, prese a sè, non hanno significato, e che un linguaggio è tanto più perfetto quanto più sono numerose in esso le parole che, per sè stesse, non hanno alcun senso, di fronte a quelle, che, anche enunciate isolatamente, esprimono qualche opinione o stato di animo di chi le pronuncia.
   E ciò è tanto vero che le parole che hanno meno senso di tutte le altre, quelle cioè alle quali è necessario aggiungere un più gran numero di altre parole per ottenere una frase che voglia dire qualche cosa, sono appunto quelle che compaiono più tardi, tanto nello sviluppo storico dei linguaggi, quanto nel processo individuale del loro apprendimento(3). Tali sono in particolare le preposizioni, in quanto esse hanno l'ufficio di distinguere le varie specie di relazioni che possono aver luogo tra gli oggetti dei quali si parla. Esse infatti, appunto per questo, non indicano assolutamente nulla se non sono accompnate dalle parole denotanti gli oggetti tra i quali la relazione in questione s'intende sussistere. Così se pronunciamo le parole «accanto» o «sopra» o «sotto», senza indicare ulteriormente quali sono le cose delle quali intendiamo dire che «l'una è accanto all'altra» o «l'una sopra o sotto», noi non comunichiamo a chi ci ascolta alcuna maggiore informazione, su ciò che pensiamo o crediamo, di quanto faremmo emettendo dei suoni qualunque privi di ogni significato.
   Ora è da notare che appunto di segni indicanti relazioni (uguaglianza, disuguaglianza, rapporti di situazione, di direzione, di grandezza, ecc.) si compone la parte più importante ed essenziale del linguaggio matematico, e che nella stessa categoria rientrano anche i segni esprimenti funzioni ed operazioni, poichè anch'essi non possono esprimere alcun fatto o asserzione determinata se non vengano seguiti, o accompnati, da altri segni indicanti gli oggetti o le quantità sulle quali l'operazione s'intende eseguita.
   D'altra parte l'indicazione degli oggetti o del valore delle quantità su cui si opera è appunto ciò che la matematica tende a evitare il più possibile.
   I suoi progressi, come si vede anche solamente dal confronto tra la aritmetica e l'algebra, consistono anzi precisamente nel rendere le sue conclusioni al massimo grado indipendenti dall'assegnazione di qualunque speciale valore alle quantità o agli oggetti tra i quali hanno luogo le relazioni che essa considera.
   Nè questo è ancora l'ultimo limite al quale si spinge l'aspirazione caratteristica della matematica a spogliare, o (per esprimere la stessa cosa con una metafora opposta, e forse meglio appropriata), a vuotare quanto più può, di ogni significato i segni e le parole di cui si serve. Assai più avanti nella stessa direzione si va procedendo nelle regioni più astratte e speculative del suo dominio.
   Voglio alludere ai nuovi indirizzi di ricerca rappresentati da una parte della cosidetta teoria delle relazioni, quale è concepita negli scritti di Ch. S. Peirce, e dall'altra dalla logica matematica specialmente sotto la forma che essa è andata recentemente assumendo, per opera della scuola italiana della quale sta a capo il Peano.
   Un carattere comune all'uno e all'altro di questi due indirizzi è appunto la tendenza a emancipare le deduzioni matematiche da qualunque appello a fatti o intuizioni che si riferiscano al significato delle operazioni, o relazioni, in esse considerate. Queste vengono definite mediante la pura e semplice enunciazione di un certo numero di proprietà fondamentali le quali, potendo essere comuni a relazioni od operazioni aventi i significati più diversi ed eterogenei sono compatibili colle più svariate interpretazioni dei simboli che figurano nella loro enunciazione.(4)
   Dato un gruppo di relazioni od operazioni definite in tal modo, che siano cioè, supposte godere d'un certo numero di proprietà arbitrariamente fissate, l'unico scopo che può aver di mira il matematico è quello di determinare dì quali altre proprietà esse dovranno o potranno ulteriormente godere in virtù delle supposizioni fatte.
   Far concorrere a tale determinazione qualsiasi concetto desunto e suggerito dall'uno o dall'altro dei tanti significati speciali che le relazioni ed operazioni considerate potrebbero assumere, compatibilmente col sussistere delle supposizioni fatte a loro riguardo, diventa, per conseguenza, altrettanto illecito quanto per esempio in algebra il sostituire, in una formula che si tratti di dimostrare, a una lettera, un numero o una quantità determinata. Ciò equivarrebbe infatti a togliere ogni legittimità e valore alle conclusioni ottenute, le quali conservano invece tanto maggiore portata e generalità quanto più nell'ottenerle si è fatto astrazione dei significati che potrebbero avere i segni di relazioni ed operazioni che vi figurano.
   È in questo senso che la teoria diventa tanto più perfetta e si avvicina tanto più al suo ideale quanto maggiormente diventa suscettibile di essere sviluppata indipendentemente da ogni riferimento agli oggetti o alle relazioni di cui essa tratta, e alle quali essa è capace di venire applicata; quanto maggiormente, cioè, chi la costruisce è in grado di riguardarla come una pura creazione del suo proprio arbitrio.
   Che esistano, o non esistano, delle relazioni o delle operazioni che soddisfino alle ipotesi da cui egli prende le mosse, che cioè, il mondo nel quale viviamo offra o non offra esempi di relazioni che godano delle proprietà delle quali egli si occupa di indagare la possibilità o la reciproca dipendenza, è una questione della quale il matematico, come tale, si preoccupa così poco come il musico di sapere se un dato accordo o una data melodia corrisponda a qualche suono o rumore che si riscontri in natura.
   Questo carattere della speculazione matematica nel mentre costituisce il principale tratto che la distingue da ogni altra specie di ricerca scientifica rende manifesta d'altra parte l'intima e fondamentale affinità che sussiste tra essa e l'attività creatrice dell'artista.

         Como, 6 Maggio 1904,

(I) La trovo riportata da L. Couturat nel primo dei due articoli da luì dedicati all'analisi dell'opera del Russell Principles of mathematics. pubblicati ultimamente nella Revue de Metaphysique (Gennaio-Aprile 1904).
   (2) Solo eccezionalmente un nome, a causa delle circostanze stesse nelle quali è pronunciato o scritto, acquista, appunto come le interiezioni, il valore d'un'intera proposizione; come per esempio, quando sia indicato sopra una bottiglia il nome del contenuto, o quando si chiami una persona o un animale pronunciando il suo nome.
   (3) Ciò s'accorda colle osservazioni della Paola Lombroso (La vita dei bambini, Torino, 1904 p. 83-90) e colle altre, del Bergson e del Croce, riportate da Giuliano il Sofista (Il linguaggio come causa d'errore, p. 21). Il bambino comprende prima il senso delle frasi che non quello delle parole. E anche lo scienziato d'altra parte si trova spesso nella condizione di far uso di frasi alle quali attribuisce un significato determinato e preciso e che pure sono composte di parole del cui senso egli non si preoccupa ammettendo perfino che esse possano anche non averne affatto. Così per esempio il fisico può avere una chiarissima idea di ciò che intende di dire quando afferma che «due corpi hanno masse l'una doppia dell'altra» pure dichiarando oziosa, e anzi priva di senso, la domanda: che cosa sia la massa.
   (4) Così, per esempio, quando enuncio la seguente proposizione: «Se un fatto A è avvenuto prima del fatto B, e il fatto B è avvenuto prima del fatto C, allora anche il fatto A è avvenuto prima del fatto C,» l'affermazione così enunciata è tale che non cesserebbe di essere vera se in essa al posto della parola «prima» sostituissi, in tutti i tre i casi, la parola «dopo», oppure la parola «contemporaneamente». Io ho quindi enunciata una proprietà che è comune alle relazioni indicate da ciascuna di queste parole proprietà di cui io posso quindi ricercare le conseguenze anche senza indicare o decidere di quale delle date relazioni io parli. Le mie conclusioni varranno allora per qualunque relazione per la quale la detta proprietà si verifichi. E se il linguaggio ordinario non mi mette a disposizione un nome abbastanza generale (cioè abbastanza privo di senso) per designarle tutte contemporaneamente mi sarà lecito introdurlo e farne uso se e fino a quando ciò sia necessario od opportuno.


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